Ismail Kadaré: Albania, la verità resta negli archivi

18/5/2010 (7:45) - INTERVISTA
Lo scrittore: «Non abbiamo avuto il coraggio di fare una legge sulla trasparenza. E il peso del apssato favorisce la corruzione»
DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI
Per liberarsi davvero del passato autoritario l’Albania ha bisogno della verità , del coraggio, che finora non ha avuto, di aprire gli archivi, di non farsi ricattare dall’alibi delle possibili vendette»: Ismail Kadaré, di cui Fandango ha appena pubblicato Il mostro, (190 pag., 16,50 euro) scritto negli anni della dittatura comunista, misura da Parigi dove ha vissuto l’esilio, i difficili passi del suo paese per ricongiungersi all’Europa.
«Il mostro» è un libro chiave di un lungo interrogarsi sulla identità di un Paese due volte separato dall’Europa, prima dagli ottomani e poi dal comunismo…
«È il problema numero uno purtroppo non ancora risolto, ma lo è per tutti i Balcani, questa rottura con l’Europa, questo legame con l’impero ottomano. Sì, la storia è ancora più antica, prima è stata la penisola iberica a essere staccata dall’Europa, poi i Balcani. Gli ottomani hanno provato anche con l’Italia ma non ci sono riusciti, ed era il loro vero obbiettivo dopo aver conquistato la seconda Roma, Costantinopoli, prendere la prima. Poi hanno cambiato idea, hanno deciso di risalire i Balcani verso il cuore dell’Europa, non amavano il mare».
Poi il fascismo: un periodo breve…
«Sì ma è a causa del fascismo che è arrivato il comunismo. Jugoslavi albanesi greci si sono unificati sotto una sovranazionalità ideologica. In Albania non c’erano segni, non c’erano le condizioni perché il comunismo fosse nel nostro destino».
Poi la stagione della grande religione totalitaria: staliniana, cinese, autarchica: ne avete conosciuto tutte le sfumature
«È stato soprattutto triste. Il primo segno è la repressione, poi la noia. Non se ne parla mai di questa tristezza, eppure era una cosa quotidiana che angariava la gente insieme alla repressione, marciavano insieme la violenza e la vita spenta, scialba, povera. Il regime si crea una vita artificiale, uno scenario di cartone, perché una vita normale non può esistere in una dittatura, il primo scopo delle tirannidi è di deformare la vita, disorganizzarla totalmente».
Lei era uno scrittore già celebre, come si fa a sopravvivere sotto il tiranno?
«Il solo modo di resistere è di cercare di scrivere, far credere a voi stessi che siete in un Paese dittatoriale ma che nello stesso tempo voi potete fare qualcosa che esce da questo modello; fare della letteratura innanzitutto! Può riuscire o no, non ci sono formule, bisogna tentare; Il Mostro è stato pubblicato, poi lo hanno vietato. Anche durante lo stalinismo ci sono stati scrittori straordinari. Bulgakov ha creato tutto sotto lo stalinismo, non ha certo atteso Kruscev. Così Maldestam, Anna Akmatova, anche sotto lo stalinismo c’è grande letteratura».
Sembra talvolta più difficile scrivere in una democrazia...
«È un preconcetto, che bisogna mettere gli scrittori in difficoltà perché scrivano bene. Non si possono tirare le conclusioni da un estremo all’altro, non è la libertà che fa la letteratura, non è la tirannia che la uccide, non è la libertà che fa lo scrivere del genio, non è la dittatura che fa la mediocrità . La sua meraviglia è che non è classificabile».
Poi c’è stata la primavera albanese, come giudica il suo paese oggi?
«Una situazione che non è invidiabile. La dittatura, certo, è caduta ma ne restano le vestigia sempre: non quelle concrete ma quelle di una certa mentalità generale. L’Albania non ha ancora realizzato questo strappo, si è discusso a lungo ma non ci si è purtroppo accordati su una legge della trasparenza per aprire gli archivi segreti e questo non conoscere la verità ha effetti negativi, rende possibili molte speculazioni, favorisce una parte della corruzione che rode il Paese. Perché alcuni conoscono i segreti degli altri e li utilizzano, gli ex informatori, le spie sono diventati una sorta di tesoro per i due schieramenti politici, si utilizzano come arma di ricatto. Gli albanesi non hanno l’audacia di confrontarsi con il loro passato. C’è chi dice: aprite gli archivi; gli altri ribattono: no, perché questo creerebbe dei problemi, siamo il paese della vendetta. Ma non si può coprire la verità sotto alcun pretesto. E’ un pretesto, un alibi quello della vendetta. In Albania ci sono migliaia di ex prigionieri che incontrano nei caffè i loro torturatori e non succede nulla. Gli ex informatori sono un problema complicato, devono vivere ma non possono avere ruoli dirigenti, non possono dare lezioni di morale. Anche il loro è un capitolo del dramma, erano reclutati con metodi sinistri, sono caduti talvolta in inganni, ma non hanno il diritto di diventare leader del paese».
L’Europa era la speranza, vi ha deluso con le sue risse mediocri, la sua ossessione del consumo?
«No, è ancora l’aspirazione numero uno, diventare europei, non ci sono alternative. Certo non è il paradiso, ha i suoi problemi grandi e piccoli, strategici e quotidiani, ma non ci sono alternative. La immaginavano con i suoi capolavori, sono un po’ delusi ma hanno capito anche la logica di questi difetti, non si può creare un sistema liberale democratico senza che non ci siano questi difetti».
Ci sono scrittori, libri che vi hanno spinto a diventare scrittore?
«Da adolescente si ama una letteratura molto drammatica, scura, fantastica. Io ero così; nei Balcani c’è un patrimonio folclorico e popolare che era vicino a questa qualità shakesperiana, epica. Lo scrittore può esserne danneggiato ma io per fortuna amavo anche il grottesco, il gioioso, la fantasia. Don Chisciotte che era molto popolare in Albania ha giocato un ruolo per riequilibrare questo lato scuro, epico. Tutto è stato messo in dubbio da Don Chisciotte. C’era sete per la grande letteratura mondiale; Dante Cervantes Shakespeare erano quasi autori nazionali come i classici albanesi, forse di più. Dante era molto popolare ben prima che ci fosse l’occupazione italiana e molti pensavano che, cacciati gli italiani, quello che era diventato in pratica il primo scrittore albanese, sarebbe caduto nella fama. Invece sotto il comunismo, cosa strana, è diventato ancor più popolare; le migliori traduzioni de La divina commedia sono state fatte sotto il comunismo, traduzioni magnifiche, alcuni dei traduttori hanno lavorato in prigione».
Perché?
«Dopo la rottura con il campo socialista la letteratura russa e sovietica ha lasciato un enorme vuoto e bisognava rapidemente aumentare le pubblicazione della letteratura classica di tutto il mondo, riempire gli scaffali delle librerie. Sembrava all’inizio uno sviluppo positivo poi ci siamo legati alla Cina…».
Lei ha fatto un viaggio nella Cina maoista…
«Sì una volta, durante la rivoluzione culturale. Le mete per le nostre delegazioni culturali erano Cina, Corea, Vietnam. L’impressione era dura anche se la delegazione era isolata dalla realtà . Non si può dire che non si capisse, che non si vedeva. Ho pubblicato un romanzo sulla amicizia tra Cina e Albania, un libro grottesco. Dopo che avevamo rotto con Pechino era diventato politicamente corretto criticare i cinesi e poiché eravamo simili era un modo per criticare l’Albania».
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